Cos'è
Approdato negli Stati Uniti nel 1968 per ritrarre un paese che incarnava l’essenza del suo tempo, Michelangelo Antonioni sceglie Bruce Davidson come fotografo di scena sul set di Zabriskie Point: ad accomunarli è la vocazione a scrutare nelle pieghe della realtà senza preconcetti, regalando all’osservatore uno sguardo incantato e al tempo stesso consapevole.
Entrato nella leggendaria agenzia Magnum nel 1958, l’americano ha messo in campo, sin dalla prima produzione, una straordinaria capacità di addentrarsi in territori poco familiari facendo emergere, anche dai soggetti più degradati, una dignità morale ed estetica. Il reportage che dedica a Zabriskie Point è considerato uno dei servizi magistrali della storia della fotografia di scena. Il film propone un viaggio nell’universo giovanile delle controculture, ma è anche l’occasione per esplorare un mondo denso di luci e ombre in cui si riconoscono tratti ancora attuali: «le montagne, il deserto, la città, le foreste di cactus, ma anche i ghetti, la gente che soffre, quella che si rivolta, quella che sa e capisce senza la forza di rivoltarsi, quella che forse è colpevole» (Antonioni, 1969).
Davidson trova materia infinita per dare un volto indimenticabile a ciascuna di queste sfaccettature. Ritratti, vedute di Los Angeles, paesaggi lunari della Death Valley restituiscono il mosaico composito di una società dove convivono il mito del benessere e l’evasione nel selvaggio West, la violenza e la repressione, le architetture più avveniristiche e una natura quasi primordiale. Prolungando lo sguardo oltre il consueto la realtà più comune si rivela nella sua inattesa poesia e il paesaggio più solitario si sublima in un’opera d’arte ai limiti dell’astrazione. Un altro affascinante punto di tangenza tra Antonioni e Davidson è proprio in questa affinità con le ricerche visive che sfidano le proprietà della materia, sia essa il piano riflettente di un vetro o l’asperità di una roccia desertica.
Foto: © Bruce Davidson / Magnum Photos